Nº 2 - abril 2011

Giovanni Bechelloni, Università di Firenze

Abstract: A partire dalle più recenti ricerche sulla mondializzazione del crimine e sul ruolo svolto dal “denaro sporco” nel processo di finanziarizzazione dell’economia globalizzata e nella genesi della “grande crisi” nella quali siamo tuttora immersi, si intendono esplorare le strategie informative, cognitive e politiche attivate in Italia (e negli altri Paesi del Sud-Europa) sia per occultare il nuovo volto della criminalità mafiosa (sottovalutandone dimensioni e pericolosità) sia per contrastarla con maggior efficacia.

 1. Perché la sociologia ha abbandonato la comunicazione e ha trascurato la criminalità mafiosa?

 “The move into large scale financial crime has been assisted by what has happened on the global financial markets since their liberalisation in the past two decades…

In the Summer of 2007, the collapse of the so-called US sub-prime mortgage market gave the world a hint of how closely this structure resembles a house of cards… Central banks in the EU, Japan and Australia, and the Federal Reserve in the U.S. pumped more than 150 billion dollars of taxpayers’ money into global markets to ward of a greater collapse…

The ability of criminals to launder their money through this merry-go-round of speculation is greatly increased (Glenny, M. 2009: 392-393).

Elihu Katz, uno dei sociologi della sua generazione che ha maggiormente contribuito agli studi di comunicazione, si è chiesto di recente (Katz 2009) perché mai la Sociologia, a partire dagli Anni Cinquanta, abbia abbandonato un campo di ricerche che pure aveva contribuito a far esistere negli Anni Trenta e Quaranta. Nell’ambito di scuole sociologiche importanti come quella di Chicago (con Park, Shibutani e i Lang), di Columbia (con Lazarsfeld e lo stesso Katz) e, aggiungo io, di Francoforte – sia in Germania sia in esilio (con Adorno e Horkheimer, Kracauer e Marcuse).

Tra i vari plausibili motivi Katz mette in luce il fatto che per la Sociologia “le comunicazioni sono qualcosa di amorfo, come se avessero a che fare con processi, ma senza struttura. Ironicamente, questo, è proprio ciò che sembrano pensare anche molti studiosi di comunicazione” (ibidem: 171). E, aggiunge anche, la divisione del lavoro tra discipline e dipartimenti nelle facoltà umanistiche e sociali ha accresciuto il divario contribuendo a far sì che i sociologi non percepissero e non percepiscano – nemmeno quando Rupert Murdoch compra il “Wall Street Journal” – che le comunicazioni hanno a che fare non solo con processi bensì anche con tecnologie e contenuti, norme e ruoli, organizzazioni e tutto il resto di ciò che riguarda il mondo umano e sociale. E perfino, aggiungo io, la materia prima, per così dire, dell’oggetto principe della sociologia: le relazioni sociali, attraverso il linguaggio e la parola, la scrittura e le immagini.

Nonostante il fatto che i media di comunicazione sono supposti costituire il Quarto Potere e quindi dovrebbero essere considerati come potenti istituzioni da studiare, “completi di norme e ruoli, organizzazioni e tutto il resto”, giornali, televisioni e tutti gli altri media vecchi e nuovi vengono percepiti dalla maggior parte dei sociologi come articolazioni del “big business” o dei governi.

Qualcosa di simile a ciò che è accaduto con la comunicazione e le comunicazioni è accaduto nei rapporti tra la sociologia e la criminalità. Oggetto importante di attenzione, studio e ricerche nella Scuola di Chicago (con Blumer e Matza, Becker e Athens) la criminalità non ha quasi mai assunto per la sociologia la dignità di un oggetto importante perché – proprio per lo stesso motivo che ha riguardato le comunicazioni – non sono state percepite le organizzazioni criminali come istituzioni sociali.

Il venir meno di una mirata attenzione sociologica diffusa alle grandi trasformazioni che – a partire dai primi Anni Ottanta – hanno interessato e interessano sia le comunicazioni sia la criminalità hanno prodotto conseguenze negative e devastanti sullo stato delle conoscenze: sia di quelle maggiormente specialistiche e sofisticate che dovrebbero essere padroneggiate nell’ambito delle élites (politiche e militari, intellettuali e giornalistiche) sia di quelle maggiormente diffuse tra i cittadini.

In questo senso l’articolo di Elihu Katz appena ricordato va considerato un grido di dolore, analogo a quello di altri prominenti sociologi che a partire da Pierre Bourdieu (Bechelloni 2009: 42-64), Michael Schudson (2009: 11-26), Lonnie Athens (2003), hanno, più di altri, messo in luce gli ostacoli di ordine epistemologico alla produzione del tipo di conoscenze sulle cose del mondo che possono essere strategiche al fine di orientare l’azione sociale alla costruzione di un mondo migliore. Condividendo le idee espresse da Pierre Bourdieu in una delle sue ultime interviste (La sociologie est un sport de combat) io ho deciso di reagire a tale stato delle cose, in quanto sociologo “a parte intera”. Avendo dedicato la maggior parte del mio lavoro di ricerca alla comunicazione (e in parte anche alla devianza e alla criminalità, alla guerra e al terrorismo) ho iniziato da qualche anno un programma di ricerca che si propone di contribuire alla buona vita, alla costruzione di un mondo migliore. Mostrando, con le mie ricerche, quanta “mala comunicazione” intorno a noi produce ignoranza a tutti i livelli contribuendo a rendere sempre più difficile – quasi impossibile – il lavoro di quelli che si propongono sia di contenere e contrastare la criminalità sia di sbugiardare menzogne e disinformazione.

In questa relazione mi limiterò ad accennare ai risultati finora conseguiti per mettere a fuoco un’ipotesi interpretativa più realistica e veritiera sulla criminalità mafiosa. Una ipotesi che ci possa aiutare a capire cosa sta succedendo nel nostro mondo e come possiamo evitare di essere ingannati attivando politiche di contrasto più efficaci.

Apparentemente la comunicazione e la criminalità non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Non è così. Proprio a causa del fatto che la sociologia ha ritenuto opportuno ritirarsi dalle ricerche sulla comunicazione – ritenendo le comunicazioni nient’altro che “articolazioni del big business e dei governi” – e di non fare più ricerche sulla criminalità mafiosa – ritenendo le mafie poco più che mere sopravvivenze del passato (utili ai politici corrotti) mentre gli altri criminali “non organizzati” niente altro che prodotti della miseria – ci troviamo di fronte a due istituzioni sociali di prima grandezza totalmente sottovalutate dal punto di vista cognitivo. La conseguenza principale dell’ignoranza esistente al riguardo è di accrescere la vulnerabilità sociale del mondo. Si tratta di una ignoranza quasi totalmente inconsapevole.

2. L’immagine riduttiva di mafia e criminalità

 “To define the mafia as ‘the industry of violence’ is open to misunderstandings. Violence is a mean, not an end; a resource, not the final product. The commodity that is really at stake is protection… There are people who find it in their individual interest to buy mafia protection. While some may be victims of extortion, many others are willing customers” (Gambetta, D. 1993).

2.1. Le due parole mafia e criminalità.

Il primo ostacolo a una conoscenza realistica del mondo della criminalità, e di quella mafiosa in particolare, è costituito dall’uso corrente di un lessico appropriato che invece di aiutare a fare luce contribuisce ad occultare la verità delle cose. Le due espressioni maggiormente utilizzate – sia in Italia sia altrove nel mondo – sono “criminalità organizzata” e “mafia”; meno usata “grande criminalità organizzata”.

La parola mafia ha perduto quasi del tutto il suo significato originario siciliano per diventare una parola passe-partout che va dal generico riferirsi a un cosiddetto “comportamento mafioso” che può abbracciare, allusivamente, tutti gli italiani (oppure tutti i siciliani, o anche un gruppo di amici che confabula in disparte!) al più specifico riferimento alla malavita. Spesso l’uso della parola induce al sorriso perché porta ad alludere alla serie televisiva Sopranos, quasi sconosciuta in Italia e abbastanza nota negli Stati Uniti e in Canada. Oppure ai tanti film, alle tante serie televisive e ai tanti sketch comici che siamo abituati a riconoscere sugli schermi o alla radio. Oppure, ancora, la parola mafia compare di continuo nel lessico giornalistico e mediatico per richiamare la corruzione di politici e la lotta alla mafia.

La parola criminalità da sola non viene usata quasi mai. Quando è usata nelle due espressioni riportate sopra allude a mafia e si contrappone alla piccola criminalità, considerata disorganizzata e “innocente”. Quasi mai emerge il rapporto di dipendenza tra piccola e grande criminalità. Oppure il fatto che fare il criminale è una professione appetibile e di fatto esercitata da un numero crescente di persone.

L’immagine dell’organizzazione mafiosa è sfocata e solo da poco si cominciano a usare i nomi più precisi delle singole organizzazioni mafiose e delle quattro in Italia maggiormente presenti: “Cosa Nostra” in Sicilia, “’Ndrangheta” in Calabria, “Sacra Corona Unita” nelle Puglie, “Camorra” in Campania.

I cattivi sono soprattutto quelli che si lasciano corrompere dalla mafia: in genere i politici, qualche rara volta i funzionari pubblici o gli imprenditori. Mai altri tipi di persone. I buoni sono magistrati e giornalisti che “lottano contro la mafia”; anche se non si dice o si scrive che nelle quattro regioni italiane più colpite dalla presenza invasiva della criminalità mafiosa mancano magistrati disposti a lavorare nei tribunali. E’ anche raro leggere sui giornali quello che scrive Giorgio Ruffolo nel suo ultimo libro (Ruffolo 2009:225): “questo nordismo provinciale è miope rispetto alla tremenda minaccia che grava su tutto il paese: di diventare un “Mezzogiorno d’Europa”, centro nevralgico della grande rete della criminalità mondiale. Non si tratta di minacce futuribili. ‘Pensare che il sistema mafioso resti confinato al Sud del Paese è pure ipocrisia: il cancro sta pericolosamente risalendo verso il Nord. Si è impiantato stabilmente a Milano e in Veneto e deborda dallo stesso quadro italiano’ (De Saint Victor 2008)”.

2.2 Fare soldi come scopo principale.

Il problema principale, quindi, è quello di non capire due fenomeni che a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta hanno totalmente cambiato le condizioni di possibilità per l’esistenza di organizzazioni criminali efficienti e ben radicate sul territorio. Il primo fenomeno è costituito dai processi di liberalizzazione attivati dalle misure liberiste Thatcher-Reagan che hanno reso più facili il movimento di capitali nel mondo e il riciclaggio del denaro sporco. L’altro fenomeno è costituito dalle conseguenze prodotte nel mondo dal collasso del sistema comunista in Unione Sovietica e nell’Est europeo: l’aumento rapido, per tutti gli anni Novanta e fino ai nostri giorni, del numero degli Stati incapaci di esercitare tutte le forme classiche di esercizio dei poteri sui propri territori. La maggior parte degli Stati sono diventati “fragili e governati da “élites” corrotte o facilmente corrompibili (per ambizione o per paura): in Africa, nell’Europa dell’Est, nell’Asia Centrale, in parte del Sud-America.

Forse anche l’Italia, nonostante la recente “guerra” contro la criminalità mafiosa intrapresa dal Governo Berlusconi (Meotti 2010), sta diventando un paese “senza Stato”!

Mentre agli occhi e alla sensibilità di tutti i cittadini di tutti gli Stati del mondo il liberismo economico, l’espansione dei nuovi media, i grandi investimenti in pubblicità e pubbliche relazioni, hanno moltiplicato la forza d’attrazione per tutti del denaro, è accaduto che “fare soldi” – alla grande, con efficienza e senza scrupoli – è diventata, più di quanto non sia mai stato in passato, lo scopo principale delle organizzazioni criminali. E proprio perché il denaro non ha odore – non profuma né puzza – può essere “ripulito” con facilità: basta che passi di mano. Basta che dalle mani del criminale che se lo è “guadagnato” contra legem (vendendo droghe e sesso, bambini e parti del corpo umano per i trapianti, armi e quant’altro di illecito o di proibito) passi nelle mani (sempre avide) di banchieri e finanzieri che possono prestarlo a chi se ne serve per costruire case o quant’altro.

3. La criminalità mafiosa come istituzione. Il caso italiano

 “By using prohibited narcotics, consumers are not only contributing to huge criminal profits, but they bear indirect responsibility for the trail of blood that masks every stage of its journey…

Today educated young European men think nothing of flying to Estonia or similar Eastern European destinations on stag weekends, where hiring prostitutes is all part of the fun. The profits from these activities derive from the willingness of individuals to break the law or cross social taboos to satisfy their own desires” (Glenny, M. 2009: 391).

3.1. Diffusa ignoranza storico-sociologica.

Il problema principale affonda le sue radici non solo nel rapporto perverso tra giornalismo e politica ma anche nella diffusa ignoranza storico-sociologica che caratterizza l’intellettualità europea e mediterranea che alimenta la politica e il giornalismo, gli opinion leaders e gli sceneggiatori televisivi e cinematografici, la pubblica amministrazione e le professioni maggiormente influenti come quelle dei medici e degli avvocati, degli ingegneri e dei managers. Tutti quelli che ho sopra nominato non solo non conoscono l’Europa e il Mediterraneo – nella loro lunga storia, nella loro proiezione internazionale costruita da secoli di migrazioni, intrecci e scambi, nella loro attuale configurazione socio-culturale – ma non conoscono nemmeno il mondo. Non sono, quindi, in condizione di capire gli intrecci tra le varie sfere e componenti della vita sociale. Anche quando non sono corrotti o collusi con la criminalità non sono in condizione di riconoscerla, comprenderla e contenerla. Gli ideologizzati tendono a vedere – moralisticamente – i corrotti e a non percepire gli ignoranti. Assai numerosi a tutti i livelli soprattutto tra le nuove generazioni. Non sono, quindi, in condizione di percepire i problemi e le loro articolazioni e complessità connessi con il diffondersi delle nuove tecnologie, con la globalizzazione e le migrazioni.

Il modo come il giornalismo e la politica hanno impostato il problema della mafia e dell’antimafia è la conseguenza principale dell’alto tasso di ignoranza dell’intellettualità italiana ed europea, facilmente influenzabile dall’ideologismo e dal moralismo.

“…La mondializzazione del crimine è più avanti di quella degli scambi legali… Perché lo sviluppo di queste nuove “mafie”… non implica in alcun modo una retrocessione delle mafie vere e proprie, quelle originarie di Italia, Stati Uniti, Giappone (Yakuza) o Cina (triadi), che – in particolare queste ultime – sono in pieno sviluppo e questo, per un triste paradosso, nonostante una repressione poliziesca sempre più efficace.” (Jacques de Saint-Victor 2008: 311)

“Un contesto criminogeno: la globalizzazione finanziaria:… la lista dei grandi nomi internazionali della finanza coinvolti… in affari di riciclaggio di denaro sporco o di manipolazione (legati o meno alle mafie) dà le vertigini… Il “mafioso imprenditore”… le mafie si sono impadronite dei nuovi mezzi di comunicazione, come Internet, e le intimidazioni continuano… La “distruzione creatrice”… L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo… “Money first!”… “Il denaro è l’unica cosa che interessi alla gente”… “L’imprenditore mafioso” …finisce per usare le strade che l’illegalità gli mette a disposizione nel tentativo di realizzare profitti più rapidi… La nascita di una borghesia mafiosa… Nelle zone controllate dalla mafia, in Calabria come in Colombia o in Messico, si stabilisce un “sistema criminale” che finisce per contaminare tutte le classi sociali, dalle più basse alle più elevate. Così fanno la loro comparsa, in queste regioni, non solo un proletariato criminale necessario per alimentare il fondo di commercio delle mafie, ma anche vere e proprie “borghesie mafiose” che vanno al di là del semplice gruppo criminale. Il concetto di “borghesia mafiosa”… consente di rendere conto di determinate realtà concrete delle regioni, come la Calabria, la Sicilia o la Campania, in cui la sfera criminale non è più separata dalla classe dirigente; al contrario, le è strettamente legata, “intrecciata”, senza che la funzione sia necessariamente totale (Jacques de Saint-Victor 2008: 316-327).

3.2. La mondializzazione del crimine.

Mentre ci sono giornali e giornalisti che si battono contro la mafia pochissimi sono quelli che hanno capito di cosa si tratta. Sono, così, insieme a tanti altri e in oggettiva collusione con le stesse mafie, responsabili della costruzione sociale di un’immagine della mafia in Italia e nel mondo che non corrisponde alla realtà. Per esempio l’idea che la mafia, o meglio le mafie siano organizzazioni e fenomeni tipici di società arcaiche, dell’arretratezza, dell’imperfetta modernizzazione. Mentre la verità è esattamente l’opposto. Si tratta di fenomeni modernissimi, addirittura post-moderni. Altro luogo comune errato: che i mafiosi siano uomini rozzi e incolti. Infine l’accento messo sulla violenza e sugli ammazzamenti oscura la verità delle cose esaltando un particolare – una parte per il tutto – che non può che giovare a rendere irriconoscibili i veri interessi e le vere strategie mafiose.

Con la mondializzazione, il rischio è che una simile situazione si diffonda… Il concetto di “borghesia mafiosa”, che non è sociologico ma piuttosto politico e criminologico, punta i suoi riflettori sulla nozione di patto scellerato (pactum sceleris), traducendo una “mutazione genetica” inquietante… Innanzitutto, sottolinea la capacità di frange specifiche della classe borghese di compromettersi con il crimine organizzato per la prosperità dei propri affari… In secondo luogo, e si tratta del punto in cui la mutazione è più forte, si assiste a una trasformazione della mafia stessa, che grazie alle proprie ricchezze riesce a uscire dal suo ghetto criminale e a trasformarsi in borghesia “rispettabile”. In questo è aiutata dallo spirito del tempo, poco attento alle questioni etiche e più preoccupato dalla riuscita visibile, dalla consacrazione mediatica… Il mafioso ispira ormai il rispetto degli individui per cui contano solamente i segni esteriori del successo… Ma, fatto che forse… è ancora più grave… è l’impregnamento della società intesa, o per lo meno della società occidentale, società dello spettacolo, del divertimento, del gioco e dello sport. Così, il trionfo del crimine non è più solamente pratico: diventa ormai anche culturale… “Il nuovo Eldorado della rivoluzione sessuale”… “Arizona Market”… Una cosa è certa: il mercato del sesso è, oggi, decisamente redditizio, al punto che potrebbe essere la seconda fonte di denaro delle mafie, subito dopo il traffico di droga… Grazie alla nostra ignoranza, la maggior parte dei consumatori occidentali finge di credere che queste prostitute abbiano scelto liberamente il loro destino… Il libertarismo, avendo fatto della prostituzione una questione di libertà, proibisce… alla stragrande maggioranza delle prostitute… di suscitare la minima compassione. Ma la “compassione” non è “postmoderna”… La logica capitalistica della mercificazione raggiunge… il pensiero libertario per screditare l’etica come un pensiero reazionario… “Gola profonda”… con la pornografia nasce un nuovo eldorado per la mafia… “La consacrazione della cultura mafiosa”… la mafia ha… impregnato… tutti gli aspetti dell’industria del divertimento, dalla prostituzione all’industria del porno, passando per le corse ippiche, l’universo del gioco a Las Vegas e una parte della musica e del cinema… Decisivo il ruolo di Cosa Nostra nello sviluppo di Hollywood… Come il mondo della grande impresa, anche una parte del jet set è infiltrato dalla mafia… (Jacques de Saint-Victor 2008: 328-338).

3.3. L’Italia come alta scuola di criminalità.

Ma c’è dell’altro. Non solo l’esibizione di ignoranza al riguardo delle cose del mondo da parte dell’intellettualità che alimenta le professioni maggiormente influenti è palese. Ma, a ben guardare e ascoltare, si capisce che due professioni come quelle del giornalista e del sociologo – che più delle altre dovrebbero esser fatte da persone che hanno imparato a guardarsi intorno e a saper interpretare le tracce che la vita sociale e le culture esibiscono e disseminano sul “territorio” – sono, ormai da tempo, costituite da persone che portano tappi alle orecchie per non ascoltare e occhiali molto scuri per non vedere.

Infatti, girando per l’Italia, come giornalisti e sociologi dovrebbero fare per mestiere, non è possibile non percepire – paragonando i paesaggi urbani con quelli di altri paesi – sia le tracce diffuse di degrado e illegalità sia l’assenza quasi totale di “forze dell’ordine” in divisa. Frequentando treni e autobus urbani, visitando scuole e università, girando per strade e piazze, sostando in stazioni ferroviarie e metropolitane (e financo aeroportuali), bar e ristoranti localizzati su strade e autostrade di grande transito… non si possono non cogliere tracce di ordinaria illegalità di ogni genere. Dallo “spaccio” diffuso quasi ovunque, dal tramonto all’alba e non solo, all’abitudine diffusa di sporcare con rifiuti di ogni genere e di vandalizzare quasi tutto ciò che si trova nella libera disposizione dei cittadini.

Tale capillare e plateale illegalità unita alla palese assenza di forme di controllo, sorveglianza e contenimento genera sicuramente un senso di insicurezza in molte persone e favorisce la percezione che l’Italia è “il paese di bengodi” per chi intende intraprendere una “carriera” criminale. E, in altre persone (come una ricerca empirica svolta a Napoli qualche anno fa mi ha fatto ben capire) fa nascere la voglia di esercitarsi a fare il “piccolo” criminale.

E qui, per chiudere sulla vera e propria cecità antropologica di giornalisti e sociologi, va detto a chiare lettere che uno dei luoghi comuni più diffusi e tra i più pericolosi per la sicurezza collettiva è costituito dall’ormai consolidata distinzione tra “piccola criminalità” e “grande criminalità”. La “grande” viene considerata più pericolosa, anche perché viene definita “organizzata”. Mentre la “piccola” viene sistematicamente presa sottogamba come se fosse dettata esclusivamente dal “bisogno” e dalla “miseria” o, peggio ancora, come se fosse cosa “da ragazzi” e quindi da guardare “con indulgenza”.

Non si riesce a capire quali motivi – al di là dell’ignoranza e della paura – possano essere all’origine di tale plateale errore di analisi. Ignorando il contesto e la realtà della “carriera criminale” – pure mostrata e raccontata non solo da letteratura sociologica, antropologica e criminologica ma anche dal genere letterario del poliziesco e dalla cronaca nera di altri tempi – si finisce per favorire la presenza in Italia di vere e proprie “scuole” di alta criminalità internazionale.

E non ci sono ormai dubbi possibili sul fatto che tra le fonti di attrazione dell’Italia nei riguardi degli stranieri provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’America latina come “emigranti” in transito o permanenti ci sia anche la possibilità di “iscriversi” alle più rinomate “scuole di criminalità mafiosa” del mondo. Non è questa la sede per entrare in dettagli. Ma dovrebbe essere “facile” capire che se il “modello italiano di criminalità mafiosa” si è diffuso nel mondo ed è stato adottato, con varianti locali, in molti paesi, vuol dire che si tratta di un modello sofisticato, vincente e redditizio. Un modello nel quale la paura suscitata dalla certezza della pena in tutti i casi di trasgressione delle norme è una componente altrettanto importante di altre caratteristiche distintive della criminalità mafiosa, quali il controllo del territorio attraverso l’esercizio di funzioni regolative di tipo statuale e di funzioni assistenziali di tipo welfare. Tra tali caratteristiche distintive due tra le più importanti sono quelle costituite: da una gerarchia, che rende trasparente ed efficiente la catena di comando sia quella “civile-professionale” sia quella “militare” e da una formazione, costituita da una serie di prove e di responsabilità non molto dissimili da quelle che un tempo caratterizzavano le aristocrazie repubblicane delle città-stato; al tempo di quello che Giorgio Ruffolo ha denominato, nei suoi libri, “il lungo primato italiano” (tra il IX e il XV secolo) e che era modellato sul percorso formativo del giovane nel patriziato repubblicano dell’antica Roma (affiancamento al padre, precettore “straniero”, cursus honorum).

E, allora, come non pensare, come fingere di non sapere che tra le migliaia di “stranieri” che vengono in Italia, in Spagna e altrove in Europa, ci sono anche coloro che hanno l’ambizione di diventare leader mondiali nell’ambito della criminalità mafiosa.

4. Quali strategie per conoscere, contenere e contrastare la criminalità mafiosa?

 “It is not globalization in itself that has spurred the spectacular growth of organized crime in recent years, but global markets that are either insufficiently regulated, especially in the financial sector, or too closely regulated, as in the labour and agricoltural sectors…

Since the millennium… a hostile United States, an icompetent European Union, a cynical Russia and an indifferent Japan have combined with the unstoppable ambition of China and India to usher in a vigorous springtime both for global corporations and for trans-national organized crime”.(Glenny, M. 2009: 394).

Dai pochi accenni finora fatti si può già capire quello che la ormai vasta letteratura di tipo giudiziario e giornalistico, sociologico e narrativo, prova in modo sufficientemente attendibile: il mondo della criminalità mafiosa è diventato negli ultimi anni un arcipelago vasto e differenziato, quasi del tutto incorporato nella “società legale” e quindi difficile da conoscere, contenere e combattere.

La prima attività da promuovere, in ognuno dei nostri paesi dell’Europa mediterranea, è, dunque, quella conoscitiva. Un’attività che dovrebbe vedere i sociologi in prima linea. Si tratta di un’attività di ricerca non facile, che deve essere condotta sul campo da studiosi addestrati ad ascoltare, osservare e interpretare. Si tratta di un lavoro ermeneutico al quale la maggior parte dei sociologi non sono abituati e che troppi giornalisti hanno smesso di praticare.

Conosciamo troppo poco e male.

La seconda attività strettamente legata alla prima è quella di imparare a comunicare con i cittadini sia con quelli che hanno responsabilità politiche e amministrative sia con i giovani nelle scuole e nelle università. Ciò che oggi viene comunicato sui nuovi e sugli old media è, quasi sempre controproducente. Non a caso film e altre iniziative di comunicazione sono state – in passato – finanziate dalla stessa criminalità mafiosa.

La terza attività, infine, è la più complessa. Qualcosa è stato fatto e si fa. Ma è del tutto insufficiente rispetto alla magnitudo del  problema. Si tratta di attivare una sofisticata attività di intelligence cross-borders capace di affiancare il lavoro di contenimento e di contrasto da svolgersi sul campo. Un’attività di intelligence che parte dal presupposto che la criminalità mafiosa è oggi esercitata da organizzazioni multinazionali tra le più sofisticate che ci siano: capaci di tenere collegamenti non solo con mondi diversi dislocati ovunque nel mondo ma anche con professionalità, stili di vita, culture tra loro diversissime.

In altre parole, se non vogliamo che siano distrutti i valori e le istituzioni che sono stati faticosamente inventati e costruiti negli anni e nei secoli per migliorare la convivenza tra gli umani attraverso democrazie rappresentative orientate alla convivenza pacifica, allo sviluppo sostenibile e alle virtù civiche; se non vogliamo che queste istituzioni e questi valori siano distrutti è necessario che noi sociologi per primi facciamo tutto il possibile per produrre le conoscenze necessarie per fermare processi di degrado molto avanzati.

Se il “terrorismo” o “lo scontro di civiltà” possono spaventare, la mondializzazione della criminalità mafiosa è un processo cento volte più pericoloso di entrambi. E’ più pericoloso perché finora  è poco percepito. E, soprattutto, perché la criminalità mafiosa, in tutta la sua articolata configurazione di organizzazioni tra loro quasi armoniosamente sinergiche, è la istituzione sociale contemporanea maggiormente attrezzata per rispondere alle domande sociali che si sono formate nell’ultimo ventennio o quasi in mezzo e intorno alle nuove generazioni delle élites più significative dell’Europa del Nord e dell’America del Nord. (In forma non molto diversa da come accadde nel tramonto dell’Impero Romano d’Occidente!)

Riferimenti

Il successo italiano e internazionale del libro di Roberto Saviano, Gomorra, ha aperto la strada, in Italia, ad un vero e proprio boom editoriale di libri sulla mafia e la criminalità. Memorie e romanzi, inchieste giornalistiche, traduzioni (De Saint Victor e Gayraud), libri di storici (Barbagallo), di sociologi (Arlacchi e Dal Lago) e di magistrati (Forgione); i banconi delle librerie italiane ne esibiscono a decine. Qui riporto i titoli dei libri che mi sono serviti per mettere a fuoco le mie ipotesi interpretative unitamente a libri utili per inquadrare il contesto storico-sociologico ed epistemologico al quale faccio riferimento.

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Autores: Giovanni Bechelloni